L’arbitrato societario con sede estera trova finalmente pieno riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità. Con sentenza n. 8911 del 4 aprile 2025 (disponibile qui), la Cassazione ha statuito che le clausole compromissorie statutarie possono validamente prevedere una sede arbitrale all’estero, purché rispettino i requisiti sostanziali previsti dalla disciplina speciale.
La decisione rappresenta il coronamento di un percorso giurisprudenziale iniziato con la pronuncia della Corte d’Appello di Genova n. 649/2020, che per prima aveva affrontato organicamente questa problematica, e segna un importante punto di svolta per la prassi dell’arbitrato societario internazionale.
Occorre innanzitutto chiarire cosa si intenda per “arbitrato societario internazionale”. Nel caso di specie, come precisato dalla stessa Cassazione, si tratta di un arbitrato avente sede all’estero ma disciplinato, per gli aspetti sostanziali, dalla legge italiana in quanto riguardante controversie relative a società italiana. Non si configura quindi un arbitrato “internazionale” in senso tecnico secondo i tradizionali criteri di internazionalità soggettiva od oggettiva, quanto piuttosto un arbitrato “estero” per via – e solo per via – della localizzazione della sede.
La questione aveva da tempo diviso la dottrina in orientamenti contrapposti. Un primo orientamento sosteneva che la disciplina speciale dell’arbitrato societario si applicasse (e dunque l’arbitrato societario fosse possibile) esclusivamente quando ricorressero contemporaneamente due condizioni: sede legale della società in Italia e sede dell’arbitrato in Italia. Secondo questa impostazione, la mancanza di una delle due condizioni avrebbe comportato l’inapplicabilità della disciplina speciale e, in caso di società italiane, l’invalidità della convenzione di arbitrato.
Un secondo orientamento, di stampo “internazionalistico”, argomentava invece che nessun divieto fosse rinvenibile nel d.lgs. 5/2003 circa la possibilità di fissare la sede arbitrale all’estero. Questa corrente faceva leva sull’art. 4, co. 2, della legge 218/1995, che consente la deroga convenzionale della giurisdizione italiana a favore di arbitri stranieri, e sosteneva che gli artt. 35 e 36 del d.lgs. 5/2003, pur qualificati come inderogabili, fossero riferibili al solo arbitrato domestico, ossia con sede in Italia.
Una terza posizione tentava di conciliare l’esigenza di rispetto della disciplina speciale con la possibilità di arbitrati esteri, attraverso un test di compatibilità tra la lex arbitri straniera e le previsioni del d.lgs. 5/2003.
La Suprema Corte ha risolto la questione operando una distinzione fondamentale tra norme di natura sostanziale e norme di natura processuale all’interno della disciplina speciale.
Sono qualificate come norme sostanziali quelle che disciplinano la conclusione, la modifica e gli effetti vincolanti della clausola compromissoria statutaria: l’art. 34, co. 1 (esclusione delle società quotate), l’art. 34, co. 2 (nomina degli arbitri da parte di soggetto terzo), l’art. 34, co. 3 e co. 4 (effetti vincolanti della clausola), l’art. 34, co. 6 (quorum deliberativi), l’art. 35, co. 1 e co. 5-bis (obblighi di deposito).
Sono invece considerate processuali le norme che disciplinano lo svolgimento del procedimento: i criteri di arbitrabilità (art. 34, co. 1 e co. 5), il meccanismo di nomina suppletiva (art. 34, co. 2, seconda parte), le disposizioni procedurali dell’art. 35, commi 2-5, e l’intero art. 36.
Nonostante la chiarezza dei principi enunciati, la sentenza lascia irrisolte diverse questioni pratiche di notevole rilevanza.
La Cassazione non affronta la questione relativa a come adempiere agli obblighi di deposito di cui all’art. 35, co. 1, d.lgs. 5/2003 in caso di arbitrato con sede all’estero svolto in lingua diversa da quella italiana.
Pure lasciando sullo sfondo la questione della natura di questi obblighi (che pare eminentemente processuale, trattandosi di adempimenti volto a dare pubblicità agli atti del procedimento), il problema è tutt’altro che marginale: se gli atti processuali sono redatti in lingua straniera, occorre depositare anche le traduzioni? Chi ne sostiene i costi? Quali sono le conseguenze della mancata traduzione sulla validità del deposito e sull’accessibilità ai soci prevista dalla norma?
Altrettanto problematico è il coordinamento tra l’art. 35, co. 2, che disciplina l’intervento di terzi nel procedimento arbitrale societario, e le diverse lex arbitri straniere.
La distinzione operata dalla Cassazione, pur condivisibile nei suoi tratti generali, genera zone grigie di difficile interpretazione. Si consideri l’art. 35, comma 1, qualificato dalla Corte come sostanziale:
La sentenza della Suprema corte si concentra poi sulla validità della clausola compromissoria ma non approfondisce le implicazioni del principio enunciato sulla fase di riconoscimento del lodo. In particolare, rimane poco chiaro come si applicherà in concreto l’art. 840, co. 3, n. 1, cod. proc. civ. nei casi in cui la lex arbitri straniera si discosti significativamente dalle previsioni degli artt. 35 e 36 d.lgs. 5/2003.
Se, ad esempio, un arbitrato svizzero non prevede la decisione secondo diritto richiesta dall’art. 36 d.lgs. 5/2003, potrà essere opposta la nullità della clausola compromissoria per violazione di norma sostanziale? La Cassazione non fornisce criteri chiari per distinguere le violazioni rilevanti da quelle irrilevanti ai fini del riconoscimento.
La Cassazione afferma che le norme processuali del d.lgs. 5/2003 non hanno fondamento nell’ordine pubblico, ma non fornisce criteri precisi per valutare quando una lex arbitri straniera possa considerarsi incompatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano.
Il riferimento generico alla Convenzione di New York è insufficiente: molte questioni specifiche dell’arbitrato societario (si pensi ai poteri cautelari degli arbitri o alla disciplina delle delibere assembleari) non trovano disciplina nella Convenzione e richiederebbero valutazioni caso per caso che la sentenza non fornisce.
Nonostante i problemi irrisolti, la decisione ha immediate e positive ricadute pratiche, che non sono per nulla sminuite dalla circostanza che le disposizioni del d.lgs. 5/2003 cui essa fa riferimento non sono più vigenti. Esse infatti sono state sostanzialmente traslate nel codice di procedura civile (art. 838-bis ss.), con modifiche che qui non hanno alcuna rilevanza.
Le società italiane potranno quindi validamente inserire nei propri statuti clausole compromissorie che prevedano sedi arbitrali estere, purché rispettino il requisito della nomina eteronoma.
Tuttavia, prudenza suggerisce di attendere l’evolversi della giurisprudenza di merito per comprendere come verranno risolte nella prassi le numerose questioni applicative lasciate aperte. Gli operatori dovranno prestare particolare attenzione alla redazione delle clausole compromissorie, specificando con precisione come intendono coordinare i requisiti sostanziali italiani con le diverse lex arbitri straniere.
Il percorso verso un arbitrato societario veramente internazionale è stato avviato, ma resta ancora molta strada da percorrere per renderlo pienamente operativo nella quotidianità.