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Arbitrato ed embargo

La Corte di Cassazione si è recentemente espressa in una vicenda interessante: le conseguenze del divieto di intraprendere o proseguire rapporti economici con uno Stato sovrano (il c.d. embargo) sulla clausola compromissoria contenuta in un contratto anteriormente concluso con tale Stato sovrano.  

Il testo integrale della sentenza (la n. 23893 del 24 novembre 2015, pronunciata dalle Sezioni Unite) è disponibile qui.

Nel novembre 1983 una società italiana ha concluso con il governo iracheno un contratto, retto dalla legge francese, avente ad oggetto la vendita di cinque elicotteri.  La società italiana ha inoltre fatto rilasciare una “fideiussione in favore dell’acquirente in misura pari agli anticipi versati” (così si legge nel testo della sentenza delle Sezioni Unite: può però darsi il caso che si trattasse in realtà di una garanzia a prima domanda; a prescindere dalla natura della garanzia, dal testo della pronunzia in commento si apprende che essa è stata emessa da una banca irachena, la quale godeva della controgaranzia prestata da una banca italiana).

Il contratto prevedeva una clausola compromissoria abbastanza complessa: era infatti contemplato innanzi tutto un meccanismo di risoluzione delle controversie di natura negoziale e, in caso di insuccesso di quest’ultimo, il ricorso a un arbitrato amministrato dall’ICC: “il caso sarà definito in conformità alle norme di conciliazione e arbitrato della camera di commercio internazionale di Parigi da uno o più arbitri… La decisione di detto collegio arbitrale sarà imposta le parti sarà definitivamente vincolante” (questo il testo della clausola compromissoria, così come riportato nella sentenza in commento).

Il governo iracheno non ha provveduto al pagamento di una rata di prezzo scaduta nel novembre 1986.  Per questa ragione, il venditore italiano non ha consegnato alla sua controparte gli elicotteri oggetto del contratto.

Nell’agosto del 1990, l’Irak ha invaso il Kuwait.  

Con la risoluzione n. 661 del 6 agosto 1990 (disponibile qui), il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha stabilito che “all States shall prevent: (…) (c) The sale or supply by their nationals or from their territories or using their flag vessels of any commodities or products, including weapons or any other military equipment, whether or not originating in their territories but not including supplies intended strictly for medical purposes, and, in humanitarian circumstances, foodstuffs, to any person or body in Iraq or Kuwait or to any person or body for the purposes of any business carried on in or operated from Iraq or Kuwait, and any activities by their nationals or in their territories which promote or are calculated to promote such sale or supply of such commodities or products” (punto 3) e che “all States shall not make available to the Government of Iraq or to any commercial, industrial or public utility undertaking in Iraq or Kuwait, any funds or any other financial or economic resources and shall prevent their nationals and any persons within their territories from removing from their territories or otherwise making available to that Government or to any such undertaking any such funds or resources and from remitting any other funds to persons or bodies within Iraq or Kuwait, except payments exclusively for strictly medical or humanitarian purposes and, in humanitarian circumstances, foodstuffs” (punto 4).

Più stringenti (anche perché dotate di propria forza precettiva nell’ambito dell’allora Comunità Economica Europea) erano le disposizioni di taluni Regolamenti comunitari.  In particolare: (i) il Regolamento CE n. 2340 dell’8 agosto 1990 (disponibile qui); (ii) il Regolamento CE n. 3155 del 29 ottobre 1990 (disponibile qui), entrambi volti a impedire scambi commerciali tra la Comunità Europea e l’Irak; e (iii) il Regolamento CE n. 3541 del 7 dicembre 1992 (disponibile qui), che espressamente impone il divieto di “soddisfare o adottare qualsiasi disposizione volta a soddisfare qualunque richiesta presentata da: a) persone fisiche o giuridiche in Irak o operanti tramite una persona fisica o giuridica in Irak (…)” (art. 2), intendendosi per “richiesta” “qualsiasi richiesta sotto forma contenziosa o meno, presentata anteriormente o posteriormente alla data di entrata in vigore del presente regolamento e derivante da un contratto o da una transazione o che ad essi si collega” (art. 1).

In questo quadro, nel novembre 1991 il venditore italiano ha promosso una causa in Italia, per sentir dichiarare la risoluzione del contratto di compravendita concluso con l’Irak, di cui ha chiesto la condanna al risarcimento dei danni subiti, nonché per sentir dichiarare l’estinzione della controgaranzia prestata dalla banca italiana in favore della banca irachena.

Il governo iracheno, dichiarato contumace alla prima udienza, successivamente si è costituito in giudizio, ha eccepito la carenza di giurisdizione (poiché a suo dire la lite concerneva atti compiuti dall’Irak nell’esercizio di poteri sovrani) e, in via subordinata, ha sollevato l’exceptio compromissi.

Nel corso del giudizio di primo grado, è stata pure emessa un’ordinanza ex art. 700 cod. proc. civ., con la quale è stato inibito alla banca italiana il pagamento della controgaranzia in favore della banca irachena.

Il giudice di prime cure, pur dopo un’articolata attività istruttoria (che ha visto due consulenze tecniche, una sul valore degli elicotteri oggetto del contratto e l’altra sulla legge francese che regolava lo stesso contratto), ha dichiarato (nel novembre 2003) l’improcedibilità delle domande formulate nei confronti del governo iracheno per effetto della clausola compromissoria.

Di esito opposto è stato invece il giudizio di appello: la Corte di Appello infatti, con sentenza del dicembre 2012, ha ritenuto sussistente la potestas iudicandi del giudice statale e ha pure accolto le domande formulate nei confronti del governo iracheno.

Quest’ultimo ha quindi proposto ricorso per cassazione, denunciando numerosi asseriti errori in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello.  A noi ne interessa particolarmente uno: quello riguardante l’exceptio compromissi, accolta in primo grado e invece respinta in appello.

Le Sezioni Unite hanno confermato la decisione del giudice di appello.  

In estrema sintesi, il percorso argomentativo seguito dalla Cassazione è il seguente.  Il c.d. embargo ha comportato la sopravvenuta indisponibilità dei diritti oggetto del contratto concluso tra il venditore italiano e il governo iracheno e la conseguente non arbitrabilità delle controversie relative a tale contratto.  

Ciò sarebbe di per sé sufficiente ad affermare l’invalidità sopravvenuta della clausola compromissoria e quindi confermare la correttezza della pronunzia di appello.

Le Sezioni Unite affrontano poi un altro tema: quello dell’organo giudicante competente a statuire sulla suddetta invalidità sopravvenuta.  Secondo la difesa del governo iracheno, tale organo sarebbe il Tribunale arbitrale.  Si tratta però di una prospettazione contraria al principio processuale secondo il quale ogni giudice è competente ad accertare la propria competenza (Kompetenz Kompetenz), come rilevato dalla Suprema Corte: “Tale disposizione [l’art. II.3 della Convenzione di New York del 1958, n.d.s.] si palesa quindi chiara nell’attribuire allo stesso giudice, adito nonostante l’esistenza di una convenzione d’arbitrato, il potere di trattenere il processo, ove accerti – egli, e non gli arbitri – la nullità della stessa“.

Infine, la Cassazione afferma che la successiva (e parziale) rimozione del c.d. embargo non ha comportato una reviviscenza della clausola compromissoria: il suddetto embargo, infatti, ha rappresentato “una misura sanzionatoria che rendeva illico et immediate inammissibile il ricorso all’arbitrato ed irreversibile l’azione civile promossa dinanzi al giudice competente secondo la lex fori“.

La vicenda non si è comunque conclusa: le Sezioni Unite infatti hanno soltanto confermato la sussistenza della giurisdizione del giudice statale.  I motivi di ricorso concernenti il merito della controversia saranno invece esaminati dalla Sez. I Civ. della Cassazione.

Roberto Oliva:
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