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Le vie parallele

Il diritto processuale italiano applica, nei rapporti tra procedimento arbitrale e procedimento avanti il Giudice statuale, il principio delle vie parallele.  Tale principio è codificato dall’art. 819-ter cod. proc. civ., ai sensi del quale “La competenza degli arbitri non è esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al giudice, né dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice”.

Tale principio viene in applicazione in diverse ipotesi, alcune delle quali riguardano la materia societaria.  Per questo motivo, riveste particolare interesse una recente pronunzia del Tribunale di Milano (Trib. Milano, 12 luglio 2022, n. 6095, disponibile qui), in cui il Giudice statuale ha omesso di applicare il suddetto principio.

Prima di esaminare la decisione in commento, conviene fare una premessa.

La legge processuale ammette – quanto meno dall’entrata in vigore del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 – che le deliberazioni assunte dagli organi di una società non quotata possano essere impugnate davanti agli arbitri.  Questo perché la novella del 2003 ha chiaramente fugato i dubbi, avanzati in particolare dalla giurisprudenza, con riferimento all’arbitrabilità di tali controversie.

Nondimeno, la giurisprudenza prevalente (e ormai pressoché unanime) ritiene necessario effettuare una distinzione.  Essa afferma che possono essere sì devolute agli arbitri le controversie relative all’impugnazione delle delibere societarie, ma solo se tali controversie riguardano diritti disponibili delle parti.  Se invece queste controversie riguardano diritti non disponibili, rimane ferma e inderogabile la competenza del Giudice statuale.  Questo principio viene prevalentemente applicato con riferimento all’impugnazione delle delibere di bilancio.  Se l’impugnante lamenta un vizio formale della deliberazione (ad esempio, un difetto nella convocazione dell’assemblea o nello svolgimento dei lavori assembleari), si ritiene che la controversia riguardi diritti disponibili e dunque possa essere devoluta agli arbitri.  Se invece l’impugnante lamenta un vizio sostanziale della deliberazione, ossia ritiene che il bilancio approvato con tale deliberazione non rappresenti in maniera chiara, veritiera e corretta la situazione economica e patrimoniale della società, allora siamo in presenza di una controversia su diritti indisponibili, riservata alla competenza esclusiva del Giudice statuale.

Non interessa in questa sede la correttezza di tale orientamento, contestata da numerose voci in dottrina.  Ai fini che qui rilevano, può essere dato per presupposto.

La situazione si complica nei casi in cui – e sono tutt’altro che infrequenti – il socio che impugna la delibera di bilancio lamenta contemporaneamente vizi formale e vizi sostanziali.

Sul punto consta un altro precedente del Tribunale di Milano (Trib. Milano, 28 luglio 2015, n. 9115), che aveva correttamente fatto applicazione del principio delle vie parallele: il Giudice statuale ha conosciuto dei vizi sostanziali e gli arbitri di quelli formali.

Nella recente decisione in commento, lo stesso Tribunale di Milano è ritornato sui suoi passi.

La vicenda può essere così sintetizzata.

Taluni soci di una società a responsabilità limitata hanno impugnato la delibera dell’assemblea di approvazione del bilancio al 31 dicembre 2018, lamentando tre vizi.  Il primo vizio era di carattere formale: la copia del bilancio oggetto di approvazione non era stata depositata presso la sede sociale nei quindici giorni precedenti l’assemblea, come invece prescritto dalla legge (art. 2429, co. 3, cod. civ.).  Gli altri due vizi invece erano di carattere sostanziale: il bilancio non avrebbe rispettato i principi di chiarezza e fedele rappresentazione della situazione economica e patrimoniale della società (art. 2423, co. 2, cod. civ.), e neppure quello di prudenza (art. 2423-bis, co. 1, n. 4 cod. civ.).

La società convenuta, il cui statuto contiene una clausola compromissoria, ha contestato la competenza del Giudice statuale, difendendosi in ogni caso nel merito.

Il Tribunale di Milano ha rigettato l’eccezione di compromesso e annullato la delibera, accogliendo la doglianza relativa al suo vizio formale, senza neppure esaminare i vizi sostanziali.

Lasciando in disparte, in quanto qui non interessa, il ragionamento che ha condotto il Tribunale a ritenere sussistente il suddetto vizio formale, conviene focalizzare l’attenzione sul percorso logico e giuridico che ha indotto il Giudice statuale a rigettare l’eccezione di compromesso.

Il Tribunale ha ritenuto che il cumulo di un’azione avente ad oggetto diritti disponibili (quella relativa all’invalidità del bilancio per vizi formali) con un’azione avente ad oggetto diritti indisponibili (quella relativa all’invalidità del bilancio per vizi sostanziali), astrattamente rimesse la prima alla competenza degli arbitri e la seconda a quella del Giudice statuale, radicherebbe la competenza di quest’ultimo sull’intera controversia, ai sensi dell’art. 2378, co. 5, cod. civ., che impone la trattazione congiunta di tutte le impugnazioni avverso la medesima delibera, e che rappresenterebbe norma speciale rispetto all’art. 819-ter cod. proc. civ.

Questa conclusione pare erronea per una molteplicità di motivi.

Innanzi tutto, il Tribunale ha presupposto che l’art. 2378, co. 5, cod. civ. trovasse applicazione nella vicenda sottoposta al suo esame, di cumulo tra domanda di annullamento e domanda di nullità.  Infatti, va rammentato che la presenza di vizi formali comporta l’invalidità della delibera sub specie di annullabilità, mentre per i vizi sostanziali del bilancio si configura la nullità della delibera. 

Risulta un precedente (App. Roma, 4 dicembre 1979) che ha chiaramente statuito che la riunione obbligatoria prevista dall’allora vigente art. 2378, co. 3, cod. civ. (corrispondente all’attuale art. 2378, co. 5, cod. civ.) trova applicazione solo nei casi di annullabilità di cui all’art. 2377 cod. civ. e non anche a quelli di nullità ex art. 2378 cod. civ.  E la riforma del diritto societario del 2003, che è intervenuta sulla disciplina della nullità delle deliberazioni societarie, non pare portare alcun argomento che consenta di superare quelli, di carattere sistematico, svolti dalla Corte d’appello di Roma.

Inoltre, e in tempi più recenti, anche un altro Giudice (Trib. Foggia, 14 ottobre 2005) è tornato sul tema e, sia pure in una ben diversa fattispecie, ha statuito un principio di carattere generale che pare rilevare anche nel caso qui in esame: l’applicazione dell’art. 2378, co. 5, cod. civ. postula l’identità del c.d. petitum immediato, ossia del concreto provvedimento richiesto al Giudice.  E la richiesta di pronunzia costitutiva di annullamento di una deliberazione è evidentemente diversa dalla richiesta di pronunzia dichiarativa di nullità della stessa deliberazione.

Pure sembra erronea la statuizione del Tribunale di Milano, secondo il quale l’art. 2378, co. 5, cod. civ. rappresenterebbe norma speciale in relazione all’art. 819-ter, co. 1, cod. proc. civ.  Le due disposizioni hanno invero ambiti di applicazione differenti.  La prima disposizione (art. 2378 cod. civ.) contiene la disciplina processuale del procedimento di impugnazione delle delibere societarie svolto avanti al Giudice ordinario, e dunque semmai si pone in rapporto di specialità con le norme di cui al Libro Secondo del codice di procedura civile, e quindi l’art. 2378, co. 5, cod. civ. va posto in relazione con gli artt. 273 e 274 cod. proc. civ.  La seconda disposizione (art. 819-ter, co. 1, cod. proc. civ.) riguarda invece un ben diverso tema, che è quello dei rapporti tra arbitri e Giudice statuale.  La disciplina processuale del procedimento di impugnazione delle delibere societarie svolto avanti agli arbitri si rinviene infatti nell’art. 35 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5.

Infine, neppure convincente è l’applicazione che ha fatto il Tribunale di Milano del criterio di specialità.  La disposizione processuale che esso ha ritenuto speciale (art. 2378, co. 5, cod. civ.) deve la sua attuale collocazione al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6; essa tuttavia era contenuta nel testo originario del codice civile, approvato con r.d. 16 marzo 1942, n. 262, e precisamente nell’art. 2378, co. 3, cod. civ.  La disposizione di cui all’art. 819-ter, co. 1, cod. proc. civ. è invece successiva: essa invero deve la sua attuale formulazione e collocazione alla riforma di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40; e la sua prima comparsa nel nostro ordinamento risale (sia pure con formulazione diversa) alla precedente riforma di cui alla l. 5 gennaio 1994, n. 25.  L’art. 819-ter, co. 1, cod. proc. civ. è dunque senz’altro norma successiva rispetto all’art. 2378, co. 5, cod. civ.  E come è stato correttamente evidenziato in dottrina, nel vigente diritto positivo la norma successiva, anche se generale, abroga quella precedente, anche se speciale, in virtù del principio cronologico, a meno di eventuali eccezioni disposte dal legislatore.  In tale prospettiva, sarebbe del tutto irrilevante verificare se l’art. 2378, co. 5, cod. civ. sia o no norma speciale rispetto all’art. 819-ter, co. 1, cod. proc. civ.  Quest’ultimo è invero norma successiva, e come tale a essa deve essere data applicazione, salvo incorrere in violazione dell’art. 15 disp. prel. cod. civ. 

In definitiva, il Tribunale di Milano ha compiuto un passo indietro, a prima della riforma del 1994, quando i rapporti tra arbitro e Giudice statuale erano caratterizzati dal principio di una netta prevalenza del secondo sul primo.  È solo dopo aver compiuto questo passo indietro che ha potuto conoscere del merito della vicenda, ed emettere una statuizione, che invece la volontà delle parti aveva rimesso alla competenza arbitrale.

Tale passo indietro è poi particolarmente preoccupante, in quanto il suo autore è un’Autorità giudiziaria che, per diverse ragioni, aveva in passato mostrato particolare e favorevole attenzione al fenomeno arbitrale.  La speranza e l’auspicio è dunque che quello in commento sia l’errore di un singolo Giudice relatore, e di uno specifico collegio, e non l’annuncio di un nuovo e retrivo orientamento.

Roberto Oliva:
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