Roberto Oliva

L’arbitrato societario, introdotto con il d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, ha suscitato, e continua a suscitare, numerose incertezze interpretative, che rappresentano forse uno dei fattori che hanno limitato le potenzialità, e di conseguenza la diffusione, dell’istituto.

I primi dubbi riguardavano il rapporto tra arbitrato societario e arbitrato di diritto comune e, in particolare, la possibilità, da alcuni negata e da altri affermata, che gli statuti sociali potessero contenere una clausola compromissoria per arbitrato di diritto comune.  Si tratta di un tema non solo e non tanto nominalistico: con l’arbitrato di diritto comune, le parti possono procedere alla nomina degli arbitri, che invece è demandata a un terzo nell’arbitrato societario.  La questione è stata infine risolta dalla Suprema Corte, che ha affermato chiaramente che le clausole compromissorie contenute negli statuti societari possono solo prevedere l’arbitrato societario e che dunque quelle difformi rispetto a tale modello sono nulle (Cass., Sez. III Civ., 20 luglio 2011, n. 15892).  Non sono mancate, anche dopo il formarsi e il consolidarsi dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, oscillazioni interpretative (ad esempio, ancora nel 2016 il Tribunale di Napoli ha ritenuto ammissibile l’arbitrato di diritto comune in materia societaria: sentenza n. 4874 del 19 aprile 2016), ma si tratta di voci per lo più isolate e di decisioni rese con riferimento a fattispecie particolari, dalle quali difficilmente possono trarsi principi applicabili a casi diversi da quelli considerati.

Altri dubbi riguardano poi l’ammissibilità della tutela cautelare da parte del Giudice statuale in presenza di una clausola per arbitrato societario, in considerazione dei poteri cautelari che la legge concede agli arbitri societari.  Alcuni Giudici di merito ammettono la suddetta tutela, soprattutto nel lasso di tempo necessario per la costituzione del tribunale arbitrale (particolarmente chiaro è sul punto l’orientamento del Tribunale di Milano: v.si ad esempio Trib. Milano, ord. 22 dicembre 2015), altri invece la negano, ritenendo che la devoluzione agli arbitri della controversia privi il Giudice statuale di poteri cautelari, ove gli stessi poteri siano attribuiti al tribunale arbitrale, come per l’appunto avviene in caso di arbitrato societario (v.si ad esempio Trib. Catania, 19 luglio 2016, n. 4041).

Ancora ulteriori dubbi concernono infine la stessa estensione della cognizione degli arbitri societari, e sono quelli che qui più interessano.  Il d.lgs. 5/2003, che ha introdotto l’arbitrato societario, ha indicato che gli arbitri societari possono conoscere anche di controversie relative all’invalidità di delibere societarie e in generale di tutte le controversie che hanno ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. 

Manca però una definizione delle controversie riguardanti diritti disponibili discendenti dal rapporto sociale.  Ecco dunque che si sono affacciate diverse ricostruzioni interpretative. 

Il principio che viene tralatiziamente riportato in materia è quello secondo il quale l’area dei diritti indisponibili, in relazione ai quali non è ammessa la devoluzione in arbitri, è limitata a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte.

Anche tralasciando la sovrapposizione, di certo non corretta, tra indisponibilità del diritto e inderogabilità della norma che lo prevede o lo disciplina, questo principio pare indicare un utile criterio euristico: le controversie non arbitrabili sono quelle relative a diritti la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento anche officiosa, senza necessità di un’iniziativa delle parti interessate.

Sennonché, tale principio viene invocato – con palese forzatura – per escludere dall’ambito dell’arbitrabilità le controversie relative alla veridicità e correttezza dei bilanci.  Dimenticando, quindi, che l’impugnativa dei bilanci societari è soggetta a precisi termini decadenziali: la violazione delle relative disposizioni, quindi, richiede un’iniziativa delle parti interessate, che deve non solo esistere, ma anche essere tempestiva.

A tale orientamento se ne contrappone un altro, cui aderisce il Tribunale di Catania in una sua recente pronunzia (Trib. Catania, 30 ottobre 2020, n. 3598, disponibile qui).

Osserva il Tribunale di Catania, innanzi tutto, che indisponibilità e inderogabilità sono concetti diversi.  L’inderogabilità, infatti, riguarda i limiti posti all’autonomia privata, mentre l’indisponibilità esclude del tutto un intervento di autonomia privata.

I diritti indisponibili, quindi, sono quelli che possono essere tutelati senza limiti di tempo (l’inerzia diverrebbe altrimenti essa stessa un mezzo di disposizione del diritto), ossia quelli la cui violazione può essere fatta valere con azione non soggetta a limiti di decadenza.

Il Tribunale di Catania, consapevole del contrario orientamento della Suprema Corte, fonda poi il suo ragionamento su quelle pronunzie della stessa Suprema Corte che hanno affermato la tendenziale coincidenza tra l’ambito dei diritti indisponibili e quello della nullità insanabile (Cass., 15890/2012 e 3975/2004).

Il punto di approdo di questo articolato e approfondito ragionamento è che le impugnazioni avverso le delibere di approvazione del bilancio di esercizio possono essere conosciute dagli arbitri e ciò a prescindere dal vizio in concreto fatto valere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

 

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.