Roberto Oliva

Una clausola compromissoria prevede che le controversie relative al contratto in cui essa è inserita “potranno” essere decise da un Tribunale arbitrale: si tratta di un arbitrato facoltativo, nel senso che l’attore potrà scegliere se adire il giudice statale o gli arbitri?  O invece la competenza a decidere le liti è senz’altro attribuita esclusivamente agli arbitri?  Oppure, infine, si tratta di una clausola compromissoria nulla o comunque inefficace?

Del tema avevo già avuto modo di parlare qui, commentando una ordinanza resa dal Tribunale di Milano.  Due recenti pronunzie mi inducono però a tornare sull’argomento: si tratta della sentenza della Corte di Appello di Bologna, Sez. I Civ., 12 novembre 2015, n. 1884 (disponibile qui) e della sentenza della Corte di Cassazione, Sez. VI Civ., 28 ottobre 2015, n. 22039 (disponibile qui).

Cominciamo dalla vicenda bolognese.  

Un contratto di appalto concluso nel maggio 2000, che vedeva quale committente un ente pubblico, conteneva una clausola del seguente tenore: “tutte le controversie derivanti dall’esecuzione del contratto possono essere deferite ad arbitri, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell’accordo bonario di cui sopra.  In caso di competenza arbitrale si fa riferimento a quanto disposto dall’art. 32 della L. 109/94 e successive modificazioni e integrazioni.  Foro competente: Bologna“.

Insorta controversia tra le parti, l’appaltatore, nell’ottobre 2004, ha convenuto il committente pubblico dando avvio a un procedimento arbitrale.  Il committente si è costituito negando la sussistenza della potestas indicandi in capo al Tribunale arbitrale.  In ogni caso, si è difeso anche nel merito. 

Dopo lo svolgimento dell’istruttoria, che evidentemente aveva fatto emergere circostanze di fatto favorevoli al committente, quest’ultimo ha dichiarato di rinunciare “all’eccezione di incompetenza arbitrale aderendo pienamente all’arbitrato in essere anche in via di ratifica e conferma delle attività finora svolte dal Collegio Arbitrale“.

A questo punto, le parti si sono invertite ed è stato l’appaltatore a eccepire l’incompetenza del Tribunale arbitrale.

Ciò ha indotto gli arbitri a pronunziarsi con lodo parziale sulla questione, che hanno sciolto affermando la propria competenza a decidere del merito.  Hanno infatti ritenuto che, pur in mancanza di una valida clausola compromissoria nel contratto di appalto, comunque si sarebbe formato un patto commissorio, costituito dalla domanda di arbitrato dell’appaltatore (da intendersi, in tale contesto, quale proposta di compromesso) e dall’adesione/accettazione del committente di cui si è detto poco sopra.

L’appaltatore, risultato soccombente anche nel merito, ha quindi impugnato i lodi (sia quello parziale sia quello definitivo) avanti la Corte di Appello di Bologna.

Quest’ultima, come il Tribunale arbitrale prima di lei, ha ritenuto che il contratto di appalto non contenesse una clausola compromissoria.  Secondo i giudici bolognesi, infatti, la clausola più sopra riportata sarebbe “priv[a] di sua immediata cogenza, poiché non esprimeva la volontà dei contraenti di far risolvere al giudice privato ogni controversia sorta in dipendenza del rapporto contrattuale, ma era dotata di un contenuto meramente programmatico, volto a rendere lecito un futuro accordo tra le parti per deferire ad arbitri la risoluzione di una controversia“.

Esclusa poi anche l’astratta possibilità della formazione di un patto compromissorio nel corso del procedimento arbitrale (“l’asserito accordo non era idoneo a sanare un procedimento viziato da originaria e totale carenza di potere dei tre arbitri“), la Corte di Appello ha annullato i lodi impugnati.

Di segno diametralmente opposto è invece la sentenza della Corte di Cassazione.

Un contratto di prestazione d’opera professionale conteneva una clausola, ai sensi della quale “Eventuali controversie derivanti dall’applicazione del presente disciplinare di incarico, non risolte in via amichevole, potranno essere deferite ad un collegio di tre arbitri, che giudicherà secondo le norme di diritto escluso il ricorso all’equità“.

Sorta controversia tra le parti, il professionista ha chiesto e ottenuto dal Tribunale di Milano la pronunzia di un decreto ingiuntivo, avverso il quale il committente ha proposto opposizione sollevando l’exceptio compromissi.  E in accoglimento di tale eccezione il giudice statale ha dichiarato la nullità del decreto ingiuntivo e ha rimesso la controversia agli arbitri.

Il professionista ha proposto regolamento di competenza avverso tale pronunzia, sostenendo la natura facoltativa dell’arbitrato, nel senso che sarebbe stato nella facoltà di parte attrice decidere se adire il giudice statale o il Tribunale arbitrale: “sottoscrivendo detta clausola le parti contraenti avevano assunto il reciproco, concreto ed attuale obbligo di sottostare alla decisione della parte attrice in ordine alla procedura da seguire per dirimere eventuali controversie“.

Nel procedimento avanti la Corte di Cassazione, il Procuratore generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso, osservando che “in caso di dubbio in ordine all’interpretazione e alla portata della clausola compromissoria, si deve preferire un’interpretazione restrittiva, che valga ad affermare la giurisdizione statuale“.  In realtà, l’art. 808/quater mi pare esprima un principio di segno contrario: “Nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce“.  Pur partendo da siffatte premesse, la conclusione cui è pervenuto il Procuratore generale è quella secondo la quale “l’adozione del verbo modale reggente (“potranno”) induce ragionevolmente a ritenere che le parti avessero contemplato la facoltà di ricorrere agli arbitri, in caso d’insorgenza della lite, come mera alternativa all’esercizio dell’azione giudiziaria“.

La Suprema Corte, di diverso avviso, ha respinto il ricorso.  Ha infatti ritenuto che non può essere attributo “alcun peso, nel senso ipotizzato dal P.G., (…) all’espressione “potranno”, contenuta nella clausola“.

Sul punto, la Cassazione ha richiamato un suo precedente (Cass., Sez. I Civ., 8 aprile 2004, n. 6947, disponibile qui) che, in sede di giudizio di delibazione di un lodo estero, ha affermato la sussistenza della potestas iudicandi di un Tribunale arbitrale cinese che rinveniva i suoi poteri in un patto compromissorio, redatto in lingua inglese, in cui era previsto che le parti avrebbero potuto (“may“) deferire ad arbitri le loro eventuali controversie.  

La tesi della facoltatività (allora intesa quale non vincolatività dell’arbitrato e conseguente assenza di potestas iudicandi in capo agli arbitri), secondo la Cassazione, “è inficiata dall’errore di fondo, di concepire l’esercizio dell’azione altrimenti che come una facoltà.  La disponibilità dell’azione comporta di necessità che il suo esercizio – sia l’azione proposta davanti al giudice, o sia essa proposta davanti ad un arbitro (e come che debba qualificarsi quest’ultimo caso) – si configuri come una mera facoltà della parte che vi ha interesse, o come un onere per conseguire la tutela giurisdizionale o arbitrale (dunque, mai come un obbligo, e meno che mai come un dovere); onere al quale corrisponde, dall’altra parte, una posizione di mera soggezione (e dunque, anche in tal caso, non propriamente di obbligo o di dovere). è infatti sufficiente tener fermo questo punto, per concluderne che in nessun caso le parti avrebbero potuto correttamente usare, per il ricorso all’arbitrato, verbi significanti dovere o obbligo, come invece si pretende con il motivo in esame.  E, se questo era l’unico modo lessicalmente corretto per esprimere la volontà delle parti, di riservare ad un collegio arbitrale la soluzione non negoziata della controversia, è altresì vera la proposizione reciproca; l’espressione adoperata non può avere – sul piano giuridico – se non questo significato, perché, altrimenti, non avrebbe alcun significato concorrente al regolamento dei rapporti contrattuali, limitandosi a prevedere una generica facoltà di compromettere in arbitri, che sarebbe stata loro data anche in assenza della clausola“.

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