Roberto Oliva

Il Tribunale di Roma (sentenza n. 19215 del 28 settembre 2015, disponibile qui) si è pronunciato nell’ambito di una complessa vicenda riguardante i rapporti tra una società a responsabilità limitata e un suo ex amministratore: in una prima causa, la società ha svolto l’azione sociale di responsabilità; in una seconda causa (che è quella definita con la sentenza in commento) l’amministratore ha agito in via monitoria per ottenere il saldo dei compensi a suo dire dovuti.  Tutto ciò, nonostante lo statuto della società contenesse, all’art. 26, una clausola compromissoria: “Tutte le controversie sorte fra i soci oppure tra i soci e la società, gli amministratori, i liquidatori o i sindaci, aventi ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, sono risolte da un arbitro unico nominato dal Presidente dell’Ordine dei Dottori Commercialisti nel cui ambito ha sede la società (…)“.  E in effetti nell’azione di responsabilità l’ex amministratore convenuto in giudizio ha sollevato nei confronti della società l’exceptio compromissi; eccezione che, specularmente, è stata sollevata dalla società nei confronti dell’ex amministratore nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Si è quindi posta la questione di una eventuale rinunzia delle parti alla clausola compromissoria, in conseguenza delle loro iniziative processuali.

Innanzi tutto, il Tribunale di Roma ha richiamato l’antico e consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo: grava infatti sul debitore ingiunto l’onere di sollevare, nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di opposizione, l’exceptio compromissi, rilevando l’improponibilità della domanda (in caso di arbitrato irrituale) o il difetto di competenza del giudice statale (in caso di arbitrato rituale), che non sono rilevabili d’ufficio, ma sempre e solo su eccezione (in senso stretto) della parte interessata (tra le molte, si vedano ad esempio Cass., Sez. I Civ., 9 luglio 1989, n. 3246; Cass., Sez. I Civ., 28 luglio 1999, n. 8166; Cass., Sez. I Civ., 30 maggio 2007, n. 12684; Cass, Sez. II Civ., 4 marzo 2011, n. 5265).

Inoltre, il giudice ha pure ricordato che l’exceptio compromissi non può ritenersi abbandonata (e quindi la clausola compromissoria rinunciata) neppure in conseguenza dell’eventuale proposizione di una domanda riconvenzionale (domanda che presupporrebbe la competenza del giudice avanti il quale è formulata) o dell’instaurazione di altra e distinta controversia in relazione allo stesso rapporto: “non si è in presenza di alcuna rinuncia (tacita e meno che mai espressa) da parte dell’opponente alla compromettibilità in arbitri dell’odierna controversia né con riferimento alla proposizione di domanda riconvenzionale in questo giudizio né, a maggior ragione, con riferimento ad altre iniziative giudiziarie dell’attrice nei confronti del medesimo convenuto“.  Sul punto, il Tribunale di Roma ha richiamato una recente sentenza della Suprema Corte (Cass., Sez. II Civ., 20 febbraio 2015, n. 3464, disponibile qui): “In tema di arbitrato, la clausola compromissoria è riferibile a tutte le controversie civili o commerciali attinenti a diritti disponibili nascenti dal contratto cui essa accede, sicché la rinunzia ad avvalersene in occasione di una controversia insorta tra i contraenti non implica, di per sé, una definitiva e complessiva abdicazione alla stessa in relazione ad ogni altra controversia, a meno che le parti – con accordo la cui validità presuppone il rispetto della condizioni di forma e di sostanza proprie di un patto risolutivo degli effetti del patto compromissorio – non abbiano rinunziato definitivamente alla clausola compromissoria nel suo complesso“.

Esclusa quindi la sussistenza di una rinunzia delle parti ad avvalersi della clausola compromissoria statutaria nella controversia sottoposta al suo esame, il giudice si è interrogato sulla sua compromettibilità.  

Anche questo interrogativo è stato sciolto in senso positivo, sia pure con motivazione che (forse per il suo carattere sintetico) pare assimilare i concetti di disponibilità/indisponibilità del diritto con quelli – in realtà differenti – di derogabilità/inderogabilità delle norme che si pongono a fondamento del diritto in questione: “E’ pertanto necessario accertare caso per caso, in base all’oggetto della controversia, la disponibilità o l’indisponibilità del diritto, verificando in concreto se il diritto in questione sia o meno protetto mediante la predisposizione di norme inderogabili e la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento, svincolata da una qualsiasi iniziativa di parte.  Nel caso di specie non pare dubitabile che si tratti di normali questioni patrimoniali, che le parti ben possono liberamente regolarizzare o estinguere attraverso propri atti negoziali (…)“.  Del tema avevo parlato anche in questo post.

Il Tribunale di Roma ha quindi revocato il decreto ingiuntivo opposto e dichiarato l’improponibilità della domanda azionata in via monitoria: in ragione del fatto che la clausola compromissoria in parola prevede un arbitrato irrituale, ha quindi da un lato riqualificato l’eccezione formulata dall’opponente (volta a far “dichiarare il difetto di giurisdizione ovvero, in subordine, l’incompetenza“), mentre dall’altro lato non ha fissato alcun termine per la riassunzione del giudizio avanti il costituendo Tribunale  arbitrale, ritenendo di non poter applicare l’art. 819/ter cod. proc. civ. (che invece, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 19 luglio 2013, prevede un meccanismo di translatio iudicii nei rapporti tra arbitrato rituale e giudizio statale).

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